Recovery Fund, la lezione di Saccomanni: l'Ue è una comunità di facciata dove ognuno pensa per sé

Le politiche degli Stati membri puntano perlopiù a soluzioni domestiche e la governance globale viene snobbata per la ricerca del consenso in Patria


Il difficile negoziato sul Recovery Fund che vede il nostro Presidente del Consiglio Giuseppe Conte impegnato a Bruxelles in stremanti trattative ostacolato dai Paesi cosiddetti "frugali", in primis l'Olanda di Mark Rutte, mi ha riportato alla memoria la lectio magistralis dell'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni alla quale assistetti nel 2016 alla Luiss. L'economista - scomparso nel 2019 - ospitato dalla professoressa Gloria Bartoli, docente di Prospettive Macroeconomiche Globali, tenne in quell'occasione una dissertazione dal titolo “Global Financial crisis: why we are not learning their lessons”, esordendo con un esaustivo excursus sulla delicata situazione finanziaria internazionale, stilando un inquietante elenco di crisi susseguitesi fin dal 1970 dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, che interruppe un periodo di crescita iniziato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, dedicando particolare attenzione a quella del sistema monetario europeo nel 1992, quindi a quella globale del 2007 da cui non siamo ancora usciti, oggi per giunta aggravata esponenzialmente dall'emergenza Covid-19.

Saccomanni esaminava quindi un aspetto che i non addetti ai lavori non conoscono: in Europa, anche quando esiste la buona volontà da parte di alcuni stati membri di voler intervenire incisivamente sulle crisi, accade di scontrarsi con il problema di imminenti elezioni in altri. Saccomanni ricordava con rammarico gli studi e le proposte avanzate nel 2013, da ministro del governo Letta, e la delusione nel vederli accantonare per via delle elezioni in Germania nel settembre di quell’anno e di quelle europee nella primavera 2014 che significarono altri rinvii. Un bilancio di svariati mesi d’inazione poiché certe politiche di forte impatto, le uniche in grado di opporsi alle crisi, risultano impopolari in campagna elettorale e dunque improponibili ai cittadini. Tutti ritardi che portano invariabilmente a fare troppo poco, e troppo tardi.

Le conclusioni dell'economista erano piuttosto amare: malgrado l'auspicio di un’azione congiunta europea e di un approccio cooperativo alle sfide globali, le politiche di ogni paese risultano perlopiù volte a dare soluzioni domestiche, e quella che l’economista descrive come una necessaria riforma della governance globale viene snobbata a favore della mera ricerca del consenso a livello locale.

Tornando alla situazione contingente, basti pensare al fatto che in Olanda il governo di Mark Rutte è appeso a pochi voti e che per il 2021 sono previste le elezioni legislative, per capire come certe intransingenze da parte del Primo Ministro dei Paesi Bassi strizzino l'occhio al vicino appuntamento elettorale in patria più che a una strategia europea. Per non parlare del dilemma dello stesso Conte, tirato per la giacchetta dal M5s che non vuole il Mes e dal Pd che invece lo favorisce.

In un'Europa con 27 stati membri, ciascuno con le proprie periodiche votazioni, e - per quanto riguarda noi - in un'Italia impegnata in una perenne campagna elettorale si può comprendere come mai qualsiasi negoziato a Bruxelles parta più che mai in salita.

Pubblicato il 20 luglio 2020 su www.notizienazionali.it